IL NUOVO PROGETTO SUL PORTO
Vele ammainate, carghi in attesa di essere stipati di merci, frotte di camalli dal fisico robusto, imprechi e lazzi in lingue diverse, bandiere di nazioni stranieri, profumi e odori di terre lontane, echi di sirene, borbottio di motori appena avviati, richiami di gabbiani. In una parola: il porto.
La Liguria deve tutto al suo mare. La terra ligure: questo enorme golfo che da Ventimiglia a La Spezia sembra riunire in un abbraccio roccioso le più diverse città e paesi come fossero accumunati da un eguale destino. E infatti l’asprezza del territorio e le difficoltà del quotidiano hanno per millenni costretto gli antichi abitanti della nostra regione a corpo a corpo serrati con la natura. Solo per pochi privilegiati la Liguria poteva essere goduta con tranquillità, magari da chi poteva permettersi alberghi, diligenza, lacché. Da chi, insomma, non aveva idea di cosa volesse dire vivere giorno per giorno questo incanto petroso. Da Gothe a Lawrence, da Dickens a Maupassant le celebrità che scrissero sulla nostra terra non si contano. Ma erano solo soggiorni mordi e fuggi. Anche se duravano qualche settimana.
Orti strappati con fatica agli strapiombi con terrazzamenti, case costruite quasi abbarbicate sulle rupi come bastioni inarrivabili, sentieri tracciati dalla necessità là dove i valloni non si aprivano in orridi o turbolenti torrenti. La fame dilagava. Se non fosse stato per le attività legate al mare, Savona (come Genova e altre città costiere) non avrebbe intrapreso nessun passo verso la modernità. Non ci sarebbe stata nessuna evoluzione dal mondo rurale dei secoli passati a quello attuale del terziario. Lo scalo per le navi da crociera è infatti solo l’ultimo business nato grazie al mare: ieri era l’attracco per mercantili e altre imbarcazioni cariche di materie prime, l’altro ieri ancora la miniera più redditizia che garantiva la vendita di sale e fauna ittica nell’entroterra.
La dimensione del mare è assai particolare per i liguri: secondo Italo Calvino è “la dimensione del pericolo ma anche la porta aperta sul mondo. La via delle partenze e dei ritorni fortunati dei marinai e dei mercanti. Avvicinandoci dal mare ai centri abitati della costa, ci accorgiamo che solo visti dal largo essi acquistano la loro forma, il loro volto.”
Ripercorrere le fasi che hanno contraddistinto la storia del porto di Savona e la vita di chi effettivamente lo faceva funzionare è un altro importante tassello del mosaico che l’Università sta portando a termine sulla nostra storia recente.
ALFABETO CAMALLO
ALFABETO CAMALLO è l’archivio audiovisivo della memoria orale dei camalli savonesi. Raccoglie decine di testimonianze di portuali che hanno lavorato nel porto di Savona (e successivamente Vado Ligure) dalla fine degli anni ’40 del ‘900 fino ad oggi, e che hanno visto modificarsi le tecnologie e gli strumenti del proprio lavoro, che si è trasformato da manuale a meccanizzato. Qui sono raccolte le loro voci, i loro ricordi, le loro testimonianze.
L’ingresso a Savona, attraverso il suo porto, di Guy de Maupassant, nel 1890. Testo estratto da ‘La vita errante’, cronaca del Grand Tour che ha portato Maupassant da Marsiglia a Kairouan in Tunisia, attraverso varie tappe in Italia: la Liguria, Firenze, la Sicilia.
Voce over di Alexandra Almonsino / Musiche di Piero Ponzo e Olmo Martellacci / Disegni di Alex Raso / Montaggio di Lorenzo Martellacci / Un progetto di Diego Scarponi
LA VIE ERRANTE (SAVONA)
Entriamo nel porto di Savona. Una selva di ciminiere di fabbriche e di fonderie, alimentate ogni giorno da quattro o cinque bastimenti a vapore inglese carichi di carbone, vomita in cielo, attraverso bocche gigantesche, tortuose volute di fumo, che ricadono sulla città sotto forma di fuliggine, che la brezza trasporta di quartiere in quartiere, come una neve infernale. Rematori e cabotieri, se volete conservare immacolate le vele bianche delle vostre piccole imbarcazioni, non entrate in questo porto! Tuttavia, Savona è una bella città, molto italiana, con strade strette e allegre, piene di venditori in movimento, di frutti sistemati per terra, di pomodori scarlatti, di zucchero rotonde, di uva nera, bianca, trasparente, che sembra aver assimilato la luce, di insalata verde, montata in fretta e le cui foglie, gettate a profusione sul selciato, danno l’impressione di una città invasa dai giardini. Ritornando a bordo dello yacht, lungo il molo, sull’immenso tavolo di una bilancella napoletana, lungo quasi quanto il ponte, vedo qualcosa di strano, che fa venire in mente un festino di assassini. Davanti a trenta marinai dalla faccia bruciata dal sole sono sparsi sessanta o cento quarti di anguria, d’un rosso sangue che si associa all’omicidio. Ricoprono l’intero battello di un colore che, a prima vista, da l’impressione di una carneficina, di un massacro, di carne dilaniata. Si direbbe che questi uomini, i cui berretti rossi sono meno rossi della polpa del frutto, mangino allegramente e voracemente della carne insanguinata, come fanno le belve allo zoo. E’ una festa, alla quale hanno invitato anche gli equipaggi delle barche vicine. C’è una grande contentezza. La notte tornai in città.
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